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Corporate storytelling: un’intervista a … me!

Corporate storytelling: un’intervista a… me!

Un racconto è qualcosa che oltre a descrivere punta a trasmettere emozioni. Emozioni fondamentali anche per le aziende, intenzionate ad affermare la propria identità allo scopo di distinguersi. Ciò che conta è mettere in evidenza i propri valori, focalizzandoci su desideri e aspettative degli interlocutori.

Ne abbiamo parlato con Maria Cristina Caccia, giornalista impegnata nella realizzazione di percorsi di Scrittura narrativa e autobiografica, scrittura creativa e abbinata alla Comunicazione d’Impresa.

Ciao Maria Cristina, benvenuta sul nostro blog! Vuoi raccontarci un po’ chi sei e di cosa ti occupi?

Benvenuti a voi! E grazie per questa opportunità. Il mio cognome è tutto un programma. Mi piace abbinarlo alla figura dell’esploratore, che prepara la mappa, traccia i percorsi del suo viaggio alla ricerca dell’Oro! E quanti tesori vado cercando, tanti!

Idealista e sognatrice, ho fatto scelte epiche professionalmente, grandi “no”, che mi hanno condotta verso i luoghi sconosciuti e imprevedibili della libera professione. Sono appassionata di Comunicazione relazionale e d’Impresa di cui mi occupo dal 2009. Giornalista pubblicista dal 2005, amo la scrittura come forma d’arte da vivere per se stessi e in relazione con gli altri.

Strutturo percorsi di Scrittura narrativa e autobiografica, scrittura creativa e utilizzo la scrittura abbinata alla Comunicazione d’Impresa, come strumento di crescita individuale e di team in piccole e medie imprese, strutture professionali, organizzazioni, per attività di storytelling, ghostwriting e narrazione autobiografica sia d’impresa sia individuale.

Ricercatrice e in continuo studio e approfondimento di dinamiche mentali e comportamentali, di intelligenza emotiva e cognitiva, ho orientato la mia formazione ad approccio olistico, seguendo gli orientamenti della psicologia cognitiva e umanistica. Sono attualmente in formazione come Psicologa a indirizzo Cognitivo all’Università degli studi di Trento-Rovereto.

Affianco manager, liberi professionisti, studi associati, dirigenti, in attività di Comunicazione d’Impresa e relazionale, correlate allo sviluppo di risorse personali e di ruolo, in sessioni individuali o di team.

Studio e ricerco continuamente strumenti che mi permettano di associare l’importanza del “cervello limbico” all’espressione delle nostre emozioni nel comportamento quotidiano sia nello spazio personale sia nel contesto lavorativo.

Maria Cristina Caccia

Andiamo ora al punto: con te vorremmo scoprire i segreti del corporate storytelling. Di che cosa si tratta nello specifico?

Chiediamo aiuto al termine che si compone di: “story” e “telling” ovvero “dire, pronunciare, comunicare racconti o attraverso racconti” che non sono semplici “history” o “storie”. Le storie sono accostamenti di fatti ed eventi in un susseguirsi cronologico, lineare e razionale; i racconti hanno il potere di creare significati e di rappresentare quel susseguirsi di eventi e fatti con una veste mitica e semantica tipica della narrazione, dove l’uso della metafora o dell’archetipo diventa un elemento di forte distinzione da tutto ciò che è mera cronologia.

Un racconto è un modo per dare significato a un mondo, ancor più, crea un mondo parallelo, pur mantenendo inalterato il senso dei fatti in sé, semplicemente li narra sotto forma di suggestive e coinvolgenti rappresentazioni. Un modo “altro” di dire e di descrivere, un’arte di significare.

Un racconto – come sostiene Andrea Fontana, autorevole storyteller italiano – può contenere una “history”, ma quasi mai una “history contiene una story”. Nel racconto coesistono elementi fattuali (history) accanto a elementi simbolici, mitici, immaginifici che amplificano il valore narrativo ed empatico dei fatti: il racconto proviene da un’area creativa e intuitiva del cervello, deputata all’immaginazione e al mito.

Perché è importante fare storytelling in azienda?

Il racconto non si limita a dire e a descrivere, ma parla, muove emozioni, coinvolge e, “vende”, perché crea suggestioni interne, immagini che affascinano e che toccano archetipi dentro di noi. Contano le trame, l’enigma, il “modo diverso per dirlo”, non tanto i dati, quelli sono quasi scontati per lo storyteller.

Descrivere un prodotto o una marca è diverso dal narrare una marca o un prodotto. Pensiamo a Barilla: si sarebbe posizionata nella mente dei consumatori nel modo in cui è riuscita se avesse semplicemente detto “facciamo la pasta più buona noi, siamo Barilla”? Probabilmente no.

Se analizziamo lo spot, uno tra tutti quello della bimba che rientra fradicia di pioggia, con un gattino salvato dentro al suo marsupio, accolta dalla famiglia riunita a casa, con uno slogan “Dove c’è Barilla, c’è casa”, cosa sentiamo? Dove lo sentiamo? Siamo stati catturati da parole o da emozioni? Ecco, le emozioni si imprimono nella nostra parte “animica” e diventano narrazione, non più mera descrizione.

Allo stesso modo, lo storytelling è un ottimo strumento per la comunicazione interna, tra collaboratori, nel momento in cui si creano spazi di condivisione e di collaborazione; l’utilizzo del racconto come elemento formativo è di grande valore aggregativo. A tal proposito, il coaching creativo cui mi ispiro in molti dei miei colloqui con manager o professionisti, offre diversi spunti ed esercizi per ragionare in modo “laterale”, spostando prospettive e offrendo strumenti operativi da applicare nella dimensione relazionale quotidiana.

Corso narrazione, in aula

Ti capita mai di affrontare professionisti o aziende che hanno molto materiale da raccontare, ma non sanno da dove partire? Che approccio consigli?

L’impatto è quello di un profondo “caos” da riordinare, una sorta di smarrimento: “Da dove si parte?”. Un primo passo è far comprendere che una comunicazione di successo si basa sul condividere la propria unicità al target, sia interno sia esterno, coinvolgerlo, fargli provare emozioni, far trapelare i Valori della marca e dell’identità aziendale.

Suggerisco di raccogliere elementi come se si fosse in procinto di scrivere un racconto, ad esempio:

  • chi sono i protagonisti, in quale contesto si muovono, cosa fanno,
  • chi sono i “nemici”, chi sono gli “aiutanti”,
  • qual è l’elemento drammatico (i punti deboli, ad esempio)
  • quali i punti di forza e successo,
  • quali altri personaggi agiscono sulla scena,
  • la trama e la direzione, senza svelare “la fine”.

È importante far capire come si debba fare leva sui valori interni, andando al di là degli obiettivi e della performance, per fare focusing sui desideri delle persone, sulle aspettative, sul vissuto, sulle note emotive di chi vive “nella story/racconto”. Si tratta di fare ordine e di cercare di raccontarsi in modo strutturato, entrando nella dimensione umana ed emotiva, dando colore alla propria realtà.

Protagonisti sono l’ordine e il fare chiarezza, la creatività e la necessità o la sfida di andare oltre i propri schemi logici e standardizzati. Alla domanda: “Qual è la tua corporate identity?” non corrisponde sempre una risposta immediata e consapevole, partirei da lì…

Possono essere utili i social per fare corporate storytelling?

I social sono uno strumento molto efficace per fare corporate storytelling; richiedono un utilizzo sintetico e chiaro della parola, cui si affiancano immagini, video, post, filmati, corto metraggi e chi più ne ha…

Ospitano scenari, visioni, immagini, tridimensionalità, pensiamo a canali come Youtube o a piattaforme come Instagram o Pinterest, che permettono di dare forma e vivificare sceneggiature che raccontano in pochi secondi o minuti, il senso di un’identità aziendale o l’anima di un prodotto o, ancora meglio, la tradizione di una grande famiglia.

Gli elementi di uno storytelling efficace si affidano a canoni di autenticità, semplicità, simil-realtà, “inner story” o racconto interiore di ciò che si è e del proprio “centro di valori in cui ci si identifica. Il mondo social ha permesso di raccontare e raccontarsi non solo ai propri interlocutori vicini, ma a tutto il mondo, con un impatto in termini di feedback che detronizza un po’ il classico “sito” web tradizionale, superato in termini di fruibilità e di interattività, soprattutto.

Secondo te, è cambiata la scrittura con l’avvento del digitale?

La scrittura ha dovuto rivedere i propri canoni, quindi non più prolissa, ma sintetica, immediata e leggibile. Il digitale non ha “tempo da perdere” e una sua funzione è proprio quella di “ottimizzare il tempo” e renderlo più veloce, quindi i testi e i “modi per dirlo” si sono adeguati; come non citare la rivoluzione degli e-book! Personalmente sono per il testo cartaceo e amo tenere libri e sfogliarli, anche se, al giorno d’oggi, questa abitudine stride con il mondo 4.0.

Il #digitale non ha tempo da perdere, quindi anche i testi si sono adeguati

Il digitale ha trasformato la fruibilità della scrittura e tutti siamo, oggi, dei content manager, basta guardare i nostri post su Facebook o su altri social: tutti scriviamo, “postiamo”… anche se non possiamo definirci “storyteller”. Nel mio lavoro, però, scappo un po’ da questo “digital lifestyle” e faccio spazio alla tradizione, esortando a prendere carta e penna e a ritrovare un momento di realtà, al di fuori di questo frastuono di uno spazio comunicativo che è sempre più virtuale, pur sorprendentemente affascinante.

Che cosa significa la scrittura per te?

La scrittura per me è uno strumento eccezionale di crescita e di auto-conoscenza. Le parole descrivono l’intensità di uno stato d’animo, ne raccontano l’aspetto positivo o negativo, che traspare dal racconto e dal modo in cui esso viene veicolato attraverso la gestualità, il tono della voce, il respiro.

Spesso non abbiamo nessuno con cui dialogare proprio nell’istante esatto in cui l’ansia non ci fa respirare oppure una gioia immensa ci inebria. L’Uomo ha bisogno di raccontare e raccontarsi, aprendo porte su se stesso anche per sentirsi “meno solo”. Un foglio di carta e una penna diventano ottimi interlocutori cui affidare i nostri segreti più profondi, le nostre immediate emergenze del cuore: scrivere è una forma di sollievo dell’anima, come Jung sottolineò “…scrivere equivale a creare, ed il processo creativo risulta terapeutico in sé”.

La scrittura come terapia è intesa in senso rigenerativo, in quanto facilita l’auto-conoscenza e la riscoperta di una rinnovata intimità con se stessi.

Dulcis in fundo: vuoi salutarci con una frase o una citazione che ti rappresenti?

“Bisogna vivere con semplicità e pensare con grandezza” di William Wordsworth. Sono molto legata al termine “semplicità” che è, secondo me, la più grande forma di grandezza. Dobbiamo avere voglia di “vedere”, di pensare in grande, di porci degli obiettivi, di sognare e di osare, abbandonando la presa egoica della volontà di “fare per essere visti”: occorre “fare nell’essere autentici”.

Ognuno deve realizzare la propria “areté” come direbbero i greci ovvero il proprio “talento”, dirigersi verso la propria autorealizzazione. La scrittura è una forma d’arte interiore che lascio parlare ogni volta in cui riempio le pagine del mio diario, ogni volta in cui ho la possibilità di esprimere e condividere ciò che penso; mi fa “volare in alto”, pur rimanendo fisicamente radicata a terra: siamo Anime in corpi fisici, quale migliore esempio di “story” se non la nostra stessa esistenza se potessimo metterla in scena?

© 2022 Maria Cristina Caccia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale di testi e immagini non autorizzata.

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